Ogni volta che si affronta una discussione su discriminazioni, micro aggressioni a sfondo razziale o si parla semplicemente di altre etnie, a molti manca sempre un passaggio in più, ovvero la terminologia.
In Italia c’è tantissima confusione a riguardo, probabilmente anche perché in parte si vuole restare ancorati a un certo modo di esprimersi, senza preoccuparsi di quale sia la parola più corretta. Si giustifica il tutto dicendo di “non vedere colori” ma la realtà è che siamo un po’ pigri e che, forse, questa è un’affermazione un po’ razzista.
POC e BIPOC
In USA abbiamo la definizione di POC (People Of Color) che sta ad indicare qualsiasi persona di etnia non caucasica, successivamente è stato coniato il termine BIPOC (Black, Indigenous and people of color). Una definizione sicuramente più precisa ma che non ritrova riscontro nella lingua italiana, o almeno non in modo così preciso.
Di colore
Il punto è che in italiano, dire “di colore” prende un significato completamente diverso, rispetto all’inglese. Se analizziamo tutte le volte che abbiamo sentito o detto “uomo di colore/ ragazza di colore/ bambini di colore” ci renderemo conto che era sempre riferito a persone dalla carnagione scura. Mentre in inglese, quando parliamo di POC o BIPOC ci riferiamo a qualsiasi persona che non sia di etnia caucasica.
Quindi dire “di colore” è sbagliato? Sì, se parliamo della traduzione italiana di POC, che chiaramente non ha lo stesso significato. Motivo per cui si dovrebbe usare nero/a/e/i/* parlando di persone dalla carnagione scura e/o POC o ancora BIPOC quando ci riferiamo ad etnie non caucasiche. O ancora meglio, indicare la nazionalità dell’individuo senza usare quelle espressioni fortemente discriminatorie come “il pakistano”, “il rosario” e via dicendo.
Tecnicamente è sbagliato anche il concetto stesso alla base dell’espressione “di colore”. Questo perché presuppone l’idea che ci sia una tonalità di pelle “standard”, ovvero quella caucasica, quindi una sorta di non colore che non ha bisogno di essere categorizzato.
Tuttavia ad oggi soffermarsi su questi tecnicismi rende ancora più difficile, fare in modo che tutt* inizino ad utilizzare la terminologia corretta quando si parla di minoranze.
Soprattutto tenendo conto del fatto che molti ancora non hanno appreso a pieno i motivi per cui non si dovrebbe usare la N-word, diciamo che la strada è lunga e tutta in salita. È un po’ come tentare di spiegare a un bambino le equazioni quando non ha ancora capito come funzionano le addizioni.
La N-word
Quello che salta subito all’occhio quando si parla di slur razzisti in Italia, è il fatto che non vengano concepiti come tali. Ci sarà sempre qualcuno che dirà: “E come ve la prendete facilmente!” oppure “Ma l’intento non era offendere” o ancora “Va contestualizzato!”.
Come se una parola potesse improvvisamente perdere la sua connotazione negativa, nel momento stesso in cui chi la pronuncia ha “buone intenzioni”.
Qui diventa fondamentale citare Irene Facheris, attivista femminista intersezionale, scrittrice e formatrice, che ha spiegato in modo estremamente esaustivo il concetto di “buon intento” in relazione agli slur razzisti, transfobici, misogini etc. Se non si fa parte di una determinata categoria, non si può decidere cosa è o non è offensivo.
Questo perché non provando la discriminazione che subisce quella minoranza, non si è allenati a riconoscerla, non ci tocca personalmente. Chi siamo noi per decidere se una parola debba essere offensiva o meno, per una categoria di cui non facciamo parte?
Nel frattempo in Italia..
Qui si vive a stretto contatto con il whitesplaining, al contrario di tanti altri paesi in cui personaggi pubblici, “beccati” a pronunciare la N-word, finiscono sotto la lente d’ingrandimento della cancel culture.
Basti pensare a uno degli ultimi scandali avvenuti dentro la casa del Grande Fratello; uno dei concorrenti, Fausto Leali, ripete più volte la parola ne*ro rivolgendosi a Enock Balotelli, il quale cerca di spiegare perché quel termine non dovrebbe essere utilizzato, soprattutto in televisione ma viene zittito da a un altro concorrente.
Questo episodio sarebbe potuto essere un’ottima ragione per iniziare ad educare il grande pubblico riguardo agli slur razzisti. Eppure è diventato l’ennesimo circo mediatico in cui si parla di tutto tranne che dell’elefante nella stanza. Questo perché in Italia, il white privilege è un concetto talmente scontato, che non viene minimamente preso in esame quando si parla di discriminazioni.
Motivo per cui le minoranze si trovano, quasi, a doversi scusare di aver parlato di razzismo e qui è utile chiamare in causa quel sentimento di white fragility. Parlare di discriminazioni a sfondo razziale fa sentire a disagio chi non le subisce, proprio perché si crea quel senso di colpa che in pochi sanno gestire. Si preferisce guardare dall’altra parte e convincersi che un determinato comportamento non debba essere messo in discussione.
Fausto Leali viene squalificato ma durante la discussione in studio, la N-word viene ripetuta in continuazione. In quel momento non stiamo educando il pubblico, stiamo creando ancora più confusione nella mente dello spettatore.
Sui social si scatena, ovviamente, il whitesplaining nella sua forma più pura. Tra chi difende Fausto Leali, giustificando il tutto con un “Ma ci ha scritto una canzone, figurati se è razzista!” e chi invece vorrebbe tratteggiare la sua figura come quella di un povero anziano che è rimasto indietro a 30 anni fa. Quando si parla di razzismo, il gaslighting è all’ordine del giorno, proprio perché c’è la paura di affrontare in modo serio il tema.
Educa i tuoi amic*: fallo per te e fallo per loro
Ad ogni modo in Italia, quando si tratta di slur razzisti, nessuno viene ritenuto responsabile, nel migliore dei casi alle persone minoranze verrà chiesto di “contestualizzare”. In quale contesto? Non c’è dato saperlo. Nessuno verrà ritenuto responsabile di quello che dice, proprio perché manca quella sensibilità in materia di slur razzisti. D’altronde continuiamo a normalizzare le battute abiliste o basti pensare ai cabarettisti che basano tutta la loro comicità sulla misoginia.
La maggior parte delle persone BIPOC ha vissuto una fase della vita in cui permetteva agli amic* di riferirsi a loro o ad altre persone (non caucasiche) con slur razzisti. Quello che abbiamo capito, a un certo punto della nostra vita, è che non possiamo effettivamente definire “amica” una persona, finché continua ad utilizzare slur razzisti.
Da quello che ti dice “No ma non è per te” a “Tu sei diverso mica come loro” fino a “Va beh ma lo sai che ti voglio bene, no?”. Non vorrai mica fare la morale. Invece sì. Perché anche se non siamo enciclopedie viventi, anche se non possiamo cambiare il mondo da soli, educare i nostri amic* e conoscent* su questi temi è fondamentale.
Abbiamo una parte di responsabilità, che non sta nel dover spiegare a tutte le persone che conosciamo perché non dovrebbero essere razzisti o perché dovrebbero sapere cos’è il white privilege. La nostra responsabilità entra in gioco nel momento in cui abbiamo la possibilità di rendere più consapevoli le persone che ci circondano, riguardo a tutte quelle domande che non trovano risposta su Google.
Non pensare che sia normale se il tuo amico (caucasico) ascolta canzoni di rapper (caucasici) in cui la N-word viene ripetuta come se fosse un intercalare. Se usa la N-word con te, sappi che non è normale.
Non sentirti sollevato quando ti dice “Ma dai sei più bianco di me”, in quel momento ti sta rivolgendo una delle offese razziste peggiori che esistano.
Il “Free Pass”
Ogni tanto qualcuno se ne esce tirando fuori il fantomatico amico che gli ha fornito la carta magica per poter dire la N-word quando e come vuole. Non ci rende più simpatici, non è un qualcosa che aiuta a ridurre le differenze ma le accentua. Il vostro amico che “non vede colori” si sentirà in diritto di utilizzare una parola che, storicamente, ha sempre avuto una connotazione negativa e che è sempre stata adoperata per farci sentire inferiori.
Non possiamo intavolare nessuna discussione su razzismo sistemico e discriminazioni a sfondo razziale se prima non impariamo a rivolgerci in modo corretto verso le altre minoranze. Sicuramente non è semplice integrare nel nostro linguaggio, termini che non fanno ancora parte della nostra quotidianità. Tuttavia dobbiamo smetterla di aspettare che “l’Italia sia pronta” perché il momento giusto è adesso.
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