Il sanismo è un problema sistemico e per decostruirlo dobbiamo fare centinaia di passi indietro

Il sanismo è un problema sistemico e per decostruirlo dobbiamo fare centinaia di passi indietro

Come si può parlare di salute mentale a persone che non masticano questi temi e si trovano al di fuori delle “bolle” social di attivismo? Esiste un modo per avere una presa di coscienza collettiva evitando come la peste il cosiddetto “effetto bolla” che trasforma ogni discussione in un salotto elitario?

Partiamo da un fatto molto brutto: di sanismo non si parla in Italia e molt* di noi non sono pront* per questa conversazione. Come società mostriamo una notevole difficoltà anche solo nel riconoscere il tema della salute mentale e le sue molteplici sfumature, figuriamoci individuarne la classe oppressa e riconoscere le specifiche dell’oppressione.

Il sanismo (o mentalismo) è una forma di oppressione che si basa sulla percezione dello status mentale di una persona. In questo calderone rientrano sia il ramo delle neurodivergenze che quello dei disturbi mentali, di personalità e dell’umore, essendo tematiche generalmente confuse tra loro e allo stesso modo invisibili, a differenza di come accade con le disabilità fisiche in merito alle quali si parla di abilismo nel senso più proprio del termine.

Storia del concetto di sanismo e prime lotte per i diritti delle persone malate di salute mentale

La prima volta che si è parlato di sanismo esplicitamente, con la coniazione di questo termine, risale al 1960 quando il medico forense statunitense Morton Birnbaum, nel pieno di un caso giudiziario riguardante un malato di salute mentale, pubblica il suo articolo “The Right To Treatment”. La figura di Birnbaum è una figura chiave per il discorso che dobbiamo affrontare: Morton non era solamente un medico forense e studioso della dinamica psicosociale dei pazienti psichiatrici, era un vero e proprio attivista per i loro diritti. Per la prima volta i “malati di mente” come classe sono stati messi al centro della discussione.
La dottrina del diritto al trattamento asserisce che i pazienti che sono segregati contro la propria volontà abbiano il diritto inalienabile ad un giusto trattamento sanitario. Poco dopo la condivisione dell’editoriale da parte del New York Times, Birnbaum è stato contattato da due pazienti psichiatrici internati, Edward Stephens e Kenneth Donaldson, i cui casi divennero parte del suo lavoro. Birnbaum autofinanziò il suo intero lavoro, nonostante il fallimento nel caso di Stephens, affetto da schizofrenia e internato per oltre 30 anni senza mai ricevere alcuna tipologia di trattamento.

Lo scritto di Birnbaum fu rifiutato da oltre 50 pubblicazioni, finché nel 1960 gli editori dell’American Bar Association decidono di pubblicarlo sull’ABA Journal. Questa nuova importantissima questione portata sul tavolo della discussione passò totalmente inosservata e fu ignorata dagli accademici dell’epoca.

Pensavo che, una volta pubblicato, le porte si sarebbero aperte e tutti avrebbero detto: “Che idea fantastica; hai scoperto una nuova penicillina”. Purtroppo, nessuno ha aperto le porte.

Morton Birnbaum quando parlava del suo articolo. (Memorie a cura della figlia Rebecca)

La lotta al sanismo con il Judi Chamberlin e il crescendo delle testimonianze dei pazienti

L’attivista Judy Chamberlin al National Council on Disability che presenta il suo scritto “From Privileges to Rights

Nel 1971 una nuova voce si ripresenta al tavolo della discussione: si tratta di Judi Chamberlin, attivista americana del Psychiatry Survivor Movement. Questo movimento era costituito da ex pazienti, consumatori o utenti di psichiatria, si trattava di una protesta di gruppo di persone che denunciavano la malagestione del sistema sanitario mentale. I suoi membri si ribellavano alle definizioni mediche e psichiatriche dando nuovamente voce all’esperienza diretta dei pazienti così come la loro parte della storia per quanto concerne l’assistenza.

Nel 1966 una ventunenne Judi subisce un aborto spontaneo, dal quale scaturisce una profonda depressione. Su consiglio del suo psichiatra, Judi viene ricoverata in un istituto dove le viene diagnosticata la schizofrenia che le causa un internamento. Il racconto di Judi, da questo punto in poi, è raccapricciante: non solo subisce svariati abusi medici, ma racconterà che i pazienti refrattari alle cure venivano isolati anche quando la loro resistenza non era violenta. I farmaci che assumeva le creavano problemi di memoria e non le veniva in alcun modo concesso di lasciare la struttura, si definirà in merito a ciò “prigioniera del sistema“. Dichiarerà che quest’esperienza sia una grave violazione delle libertà civili e della dignità della persona. Da qui inizierà la sua lotta per la difesa dei diritti umani degli utenti della psichiatria che definirà sopravvissuti alla psichiatria.

Nel 1971 Judi Chamberlin entra a far parte del Fronte di Liberazione dei Pazienti Psichiatrici di Boston, dove fonderà i primi gruppi di auto-aiuto con altri sopravvissuti. Chamberlin inizierà poi a scrivere dell’intersezione tra sanismo e misoginia, sottolineando le radicate differenze di genere.

Il Mad Pride, i Mad Studies e il consolidamento del discorso sul sanismo

Negli anni Novanta vediamo nuove aggregazioni di utenti dei servizi di salute mentale, i Mad Pride. Principio fondamentale è che gli utenti dovrebbero essere orgogliosi della loro identità.

I Mad Pride nascono dal Psychiatric Survivor Day, tenutosi a Toronto in Canada nel 1993. Essi hanno dato vita anche ai cosiddetti Mad Studies, un progetto di indagine, produzione e conoscenza dedicata alla critica dei modi di pensare, comportarsi, relazionarsi ed essere centrati sulla psiche. Si evince questo da Mad Matters: A Critical Reader in Canadian Mad Studies, edito da Brenda LeFrançois, Robert Menzies e Geoffrey Reaume.

Questo Pride si svolge in diversi paesi del mondo, tra cui Australia, Irlanda, Portogallo, Brasile, Madagascar, USA e Sudafrica. In Italia non è stato ancora introdotto, il più vicino si ha in Svizzera, precisamente a Berna.

Come abbiamo fatto a perderci l’intero discorso sul sanismo persino in ambienti progressisti?

Parlare di salute mentale non basta. Dire alle persone di prendersi cura della loro salute e decostruire lo stigma non è abbastanza per abbattere le enormi barriere che circondano chi vive problemi di salute mentale. Molto spesso questi discorsi risultano addirittura controproducenti: si carica la vittima del sistema della responsabilità di decostruire l’oppressione che ha interiorizzato, quasi come se la liberazione fosse una responsabilità unica degli oppressi.

Quindi, in conclusione, come decostruiamo il sanismo? Sarebbe utile ripartire da zero. Riprogrammare totalmente il modo in cui abbiamo impostato la conversazione e, per gradi, raccontare il sanismo quotidiano declinandolo nelle sue molteplici intersezioni. Finora si è parlato di salute mentale come una questione individuale, enunciando consigli, doveri, routine varie per superare gli scogli quotidiani. Abbiamo visto una grande crescita di guru digitali che ci spiegano le cose, alcuni di loro sono addirittura specialisti del settore. Ma questo approccio è destinato a non funzionare: lo stigma non è innato in chi è utente di salute mentale. Non è solo una questione psicologica, di orgoglio. Lo stigma è un fattore sociale, sistemico, insegnato e socializzato nella nostra società. Finché non parleremo di questo, non stiamo facendo un discorso corretto sulla salute mentale. Se, per una volta, non mettiamo al centro la classe oppressa, non ci sarà alcun progresso in questo attivismo. Finché non si introdurrà il concetto di sanismo, mentalismo o psicofobia nei nostri discorsi, la conversazione non è ancora nemmeno iniziata.

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