Dagli anni ’60 all’era dell’attivismo social: la costruzione politica della sorellanza

Dagli anni ’60 all’era dell’attivismo social: la costruzione politica della sorellanza

C’è un filo che lega le rivendicazioni delle organizzazioni femministe occidentali degli anni ’60 alle modalità con cui, oggi, i social sono diventati uno spazio per fare attivismo: quello della sorellanza.

Ripercorrere gli ultimi sessanta anni di storia del femminismo, in Occidente, quindi, può farci comprendere meglio dove e per quali motivi si è sviluppata, all’interno dei movimenti, la consapevolezza di come il personale sia sempre politico.

Le più grandi nemiche delle donne non sono (mai state) le donne

Fin da quando siamo piccole, l’espressione della nostra personalità, in ambito relazionale, amoroso e lavorativo, ha spesso come obiettivo implicito quello di distinguerci dalle altre ragazze che conosciamo e con cui dobbiamo confrontarci. Diventando grandi ci allontaniamo le une dalle altre, separate da una competizione malsana in ogni contesto.  Questa competizione ha come fine ultimo quello di attirare su di noi lo sguardo e l’apprezzamento maschile, cioè la più alta forma di stima e validazione in una società di stampo patriarcale.

Per questo motivo, possiamo arrivare a convincerci che “le più grandi nemiche delle donne sono le donne”. Questa retorica, però, è superficiale. Adottarla significa tralasciare un dettaglio importante: l’attuale sistema socio-economico, maschilista e capitalista, approfitta di questa nostra assidua gara per assimilarci al meglio alle aspettative maschili.

Se puntiamo sempre a “non essere come le altre”, infatti, risulta più difficile empatizzare con le donne che abbiamo attorno e fare fronte comune contro sessismo e misoginia. In questo modo, diamo man forte proprio a quel sistema che da sempre ci calpesta, permettendogli di continuare a sfruttarci e discriminarci avvalendosi della divisione interna alla nostra categoria.

Il vero nemico delle donne

Non è semplice, tuttavia, acquisire consapevolezza del fatto che le più grandi nemiche delle donne non sono (mai state) le donne. Bensì, sono le dinamiche che caratterizzano la socializzazione femminile. Questa ci porta a crescere in un contesto in cui impariamo, in modo più o meno subdolo, a non essere mai del tutto solidali le une con le altre. E’ così che, quasi senza accorgercene, arriviamo a giudicare anche le nostre amiche, compagne di scuola o colleghe di lavoro attraverso parametri sessisti.

Decostruire tutti i pregiudizi che assorbiamo, e che ci rendono incapaci di essere davvero vicine e complici delle altre donne, richiede tempo e una quantità di lavoro introspettivo. E’ questo lavoro che, in un’ottica femminista, ci permette di scoprire un nuovo modo di vivere le relazioni al femminile: la sorellanza.

La rivoluzione sessuale: i primi accenni di sorellanza negli USA

Costruire una sorellanza attiva e partecipante è diventato uno dei principali obiettivi di organizzazioni e attiviste femministe americane ed europee a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, cioè dalla seconda ondata di femminismo in Occidente. Sono questi gli anni della rivoluzione sessuale, che negli USA e nella maggior parte dei Paesi europei coincidono con gli anni di protesta del movimento studentesco e proletario.

I gruppi femministi radicali statunitensi ed europei abbracciano le istanze di lotta studentesca e proletaria in chiave anti-autoritaria ed anticapitalista. Lottano soprattutto per smantellare i codici patriarcali di comportamento femminile in relazione alla sessualità e alle relazioni interpersonali. È proprio in questi anni che si inizia a parlare di personale come politico. Le organizzazioni femministe vedono nel dialogo tra donne uno strumento fondamentale, un’opportunità a disposizione di ognuna per “svincolarsi” dalla propria esperienza individuale come donna e riconoscersi simile alle altre.

Da una rivoluzione individuale ad una rivoluzione collettiva

Realizzare di non essere l’unica ad aver vissuto episodi di discriminazione o violenza, di non essere sola. Di poter lottare insieme alle proprie sorelle per un cambiamento radicale del sistema, per la propria liberazione. È questo, quindi, il punto di svolta, il cuore della rivoluzione a cui aspiravano le femministe radicali tra gli anni ’60 e ’70. Una rivoluzione prima individuale, profondamente personale, e poi collettiva.

Uno dei gruppi femministi più influenti, da questo punto di vista, è quello delle Redstockings, fondato da Ellen Willis e Shulamith Firestone nel febbraio 1969. Nel loro Manifesto (apparso a New York il 7 luglio 1969), le Redstockings sostengono che una presa di coscienza collettiva delle donne si potrà ottenere solo rendendo una pratica la teoria de “il personale è politico“.

“Ci identifichiamo con tutte le donne. […] Ripudiamo ogni privilegio economico, razziale, di istruzione e di status che ci divide dalle altre donne. Siamo determinate a riconoscere ed eliminare ogni pregiudizio che possiamo avere contro le altre donne”

Il gruppo è convinto che la sorellanza debba essere praticata su più livelli. Le donne, cioè, dovranno lottare per il diritto all’istruzione di tutte e contro la discriminazione economica. Contro il razzismo sistemico e per l’abbattimento delle barriere di classe. Solo così potranno essere finalmente libere: capendo di essere oppresse, ma di non essere sole.

Dal femminismo borghese alla sorellanza intersezionale

Il progetto delle Redstockings era, almeno nella teoria, quello di portare avanti una lotta femminista inclusiva, che coinvolgesse cittadine statunitensi di ogni posizione sociale ed etnia. Nella realtà dei fatti, invece, il femminismo della seconda ondata (anni ’60-’70 del ‘900) si dimostra un femminismo d’élite, che vede la maggior parte dello spazio sulla scena occupato da donne bianche, eterosessuali, ben istruite e benestanti.

Pur dichiarandosi aperti a tutte le donne, i gruppi femministi più influenti negli USA in quegli anni (Redstockings, FEMINISTS, New York Radical Feminists,…) escludono sistematicamente le donne bipoc, le donne lesbiche o bisessuali e le donne più povere.

Le rivendicazioni dei collettivi di donne nere e/o lesbiche, come il Combahee River Collective o il gruppo Radicalesbians, cadono spesso nel vuoto. Il dialogo tra soggettività differenti, che avrebbe dovuto essere alla base della mobilitazione femminista, risulta per anni un monologo. La voce che prevale su tutte le altre, infatti, rimane quella di donne bianche e borghesi che danno per scontato di parlare a nome di tutte.

L’elitarismo del movimento femminista radicale negli USA rimane una costante per più di vent’anni.

Il problema dell’emarginazione delle operaie e delle donne più povere, soprattutto se nere, trova spazio per essere discusso e denunciato esplicitamente solo all’inizio degli anni ’80. Grazie all’opera di attiviste quali Angela Davis e bell hooks, il microfono passa metaforicamente alle donne che, fino a quel momento, non hanno avuto la possibilità di riflettere pubblicamente sulla propria oppressione. In questo modo, la solidarietà femminista inizia – seppur a piccoli passi – a liberarsi del classismo e del razzismo che l’avevano caratterizzata nei decenni precedenti. La sorellanza si estende a gruppi di donne che fino ad allora erano stati silenziati, non solo a livello politico-istituzionale, ma anche da un femminismo che aveva combattuto per la liberazione di poche, senza cercare la partecipazione di tutte.

In Ain’t I a woman (1981), bell hooks espone in maniera puntuale proprio le criticità del movimento femminista di quel periodo negli USA. Ripercorrendo la storia delle donne statunitensi razializzate, l’attivista denuncia la posizione sociale privilegiata delle femministe bianche e borghesi e sviluppa una riflessione fondamentale sulla sorellanza politica.  

Nel quarto capitolo, intitolato “Razzismo e femminismo: la questione della responsabilità”, hooks afferma che tutte le donne americane, senza eccezioni, attraversano un processo di socializzazione improntato su razzismo, classismo e sessismo. Tuttavia, è da aggiunge un passaggio cruciale; definirsi femministe non basta a liberarsi dell’eredità problematica della socializzazione, né dei propri privilegi se si parla di donne bianche e benestanti. È necessario un lavoro introspettivo per disfarsi di tutti i preconcetti interiorizzati che ostacolano una sorellanza davvero inclusiva a livello politico. Una sorellanza che prenda in considerazione tutte le donne.

È indispensabile quella che, in quegli anni, in Italia è definita “autocoscienza”.

“L’autocoscienza è l’altra”: la sorellanza politica in Italia dagli anni ‘70 ad oggi

Nella poesia “io dico io” (incluso nel Secondo Manifesto di Rivolta Femminile, pubblicato a marzo 1977), Carla Lonzi,

critica d’arte e teorica femminista, riassume in due versi la natura della militanza femminista in Italia negli anni dei movimenti radicali.

Non parlare con me se hai “fatto autocoscienza”

L’autocoscienza è l’altra

Parallelamente a quanto avviene in quel periodo negli USA, seppur con istanze diverse, in Italia gruppi femministi quali Demau, Rivolta Femminile e Cerchio Spezzato si concentrano sulla messa in pratica del concetto secondo cui il personale è sempre politico. Per Lonzi, praticare l’autocoscienza significa esattamente questo: vedersi attraverso l’altra, abbandonare la dimensione privata e individuale. Aprirsi al dialogo con altre donne. Riconoscersi in problematiche comuni, in esperienze condivise e in un senso di solitudine che può essere alleviato dalla militanza femminista, entrando a far parte di gruppi di donne e per le donne.

Così, tra gli anni ’70 e ’80 la sorellanza italiana diventa politica e lotta per la conquista del diritto al divorzio (legge n.898/1970) e all’aborto (legge n.194/1978). Questo al fine di contrastare la violenza maschile e liberare le donne dalla responsabilità del lavoro di cura, dalla prospettiva di essere solo mogli e madri.

Le rivendicazioni delle femministe radicali ed il loro attivismo hanno portato alla conquista di diritti fondamentali, indicando la direzione da percorrere per la liberazione dall’oppressione maschile alle successive generazioni di donne.

Ad oggi, nonostante il lavoro da fare a livello politico ed economico sia ancora molto, possiamo dire che la sorellanza resta un punto fermo da cui partire e verso cui tendere sempre.

I social network come mezzo per costruire un rapporto di sorellanza

L’avvento dei social network ha contribuito enormemente a facilitarne la messa in pratica. Attraverso i social è possibile conoscere attiviste da ogni parte del mondo e ascoltare ciò che hanno da dire. Avvicinarsi a battaglie che non ci toccano in prima persona e diventarne alleate, amplificare la voce di donne che denunciano la violenza subita, dimostrare solidarietà. La possibilità di fare gruppo anche da lontano è forse l’aspetto più prezioso di questa nuova era del femminismo, che continua ad essere una questione politica, ma offre gli strumenti per rendere tale questione davvero inclusiva. Non più ristretta ad un gruppo di donne privilegiate, ma aperta a tutte e che lotta per tutte.

Il patriarcato ci vorrebbe nemiche, ma possiamo decidere – come abbiamo già deciso in passato – di comportarci da sorelle.  Ogni volta che la nostra stessa esistenza è minacciata, le nostre abilità non riconosciute o sminuite, la nostra singola voce troppo bassa per essere ascoltata. Perché la lotta femminista, se condivisa, rimane complessa ma è meno pesante. E per affrontare tutte le battaglie ancora necessarie è fondamentale ricordarlo, a noi stesse e alle donne a noi vicine. Non solo ricordarlo, ma dimostrarlo, partire da questo e procedere il proprio percorso non più individualmente. Dire e sentirsi dire l’unica cosa di cui abbiamo bisogno: sorella, non sei sola. Io ti credo.

Fonti:

FONTI:

  • K. Pilati, Movimenti sociali e azioni di protesta, Bologna, 2018, Il Mulino.
  • Manifesto Redstockings (1969) in Manifesti femministi, a cura di Deborah Ardilli
  • Ain’t I a Woman – bell hooks (1981)
  • io dico io – Secondo Manifesto di Rivolta Femminile (marzo 1977)
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